PREFAZIONE
Nessuno s'illuda che la sofferenza dell'avversario, la
morte del nemico non ci riguardi. Come se stesse fuori di noi, come se la vita
che circola nel nemico fosse altra dalla nostra, e quella ferita, quella
morte non ci possa e non ci
debba toccare.
Questa è precisamente l'illusione sulla quale si fonda
il terrorismo, l'azione violenta, la giustificazione della
guerra.
Già Cesare Pavese, nelle pagine conclusive della
Casa in collina, uno dei suoi migliori romanzi brevi, in
cui narra dei suoi travagli e degli eventi bellici della seconda guerra
mondiale, cito a braccio,
avvertiva:
" Se un
ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha
paura a scavalcarlo, vuol dire che anche il nemico è qualcuno…non è più faccenda
altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo
stesso destino che ha messo per terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a
vederli…ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è guerra civile, so che se un
giorno dovesse finire tutti dovrebbero chiedersi: e dei caduti che ne facciamo?
Perché sono morti? Io non saprei che cosa rispondere, né credo che altri lo sappiano, forse lo sanno unicamente i
morti e soltanto per loro la guerra è finita davvero…"
Così Ahmed e Shimon poeti, palestinese il
primo, israeliano il secondo, figli della stessa terra di ulivi, discendenti
dalla stessa tribù di Abramo, divisi dalla Storia e dalla faida sanguinosa che
attraversa i loro popoli innalzano la loro salmodia dolorosa e smarrita di poeti
che sanno della ragione di Stato e che conoscono il realismo del sasso lanciato,
ma non possono rinunciare alla loro comune umanità. Dice Ahmed, il
palestinese:
Ho scagliato l'ultimo sasso prima di
sentire
il morso della pallottola nella
carne.
Sangue chiama sangue, mio
Shimon,
e si fa pietra scheggiata la mia
sera.
Risponde Shimon, l'israeliano:
…l'estremo verso Ahmed, da cui
giunge
sussurro d'acqua alla mia sete
ardente.
Pure mi sfugge il volto odiato
amato.
M'accorgo di morire nella tua
morte.
Dunque: "mi accorgo di morire nella tua
morte". E' l'ultimo verso, a conclusione di un dialogante scambio di
sillabe nelle quali il vento ed il deserto appartengono ad ambedue le parti, le
zolle di terra e le acque del Giordano ad ambedue sono sacre e rimandano alle
generazioni antiche dei loro avi. E proprio dalle immagini che i due poeti
evocano il lettore scopre, verso dopo verso, che i due nemici amano dello stesso
amore la loro unica madre, lo stesso sangue:
Da Ahmed:
Shimon, triste amico di Gaza, mio
nemico
di sempre, di questa terra si fa
dolore
il mio popolo, si fa sangue e vita,
battito
al suo cuore di pietra, rifugio alla sua
morte.
Da Shimon:
Non da te, non da te, questa
ruggine
di messi, quest'assenzio che sale alle
labbra.
Ogni casa è conchiglia di
vento,
ogni cuore è deserto.
Anche le fanciulle, tenere nella
luna,
s'adornano di giberne e
cartucciere.
Ma l'empatia trasmuta, la pietas del
lettore cede all'orrore, come l'urlo nel quadro di Munch, quando si fa strada la
consapevolezza che Ahmed e Shimon, pure nella loro tragica fisicità che li
colloca in un preciso punto dello spazio, nella terra della Palestina, sono
anche la nostra immagine infranta che il
loro specchio ci riflette: ancora l'uomo non sa trovare altre risposte
all'aggressione che non siano altre aggressioni, ognuno dicendo che la prima
aggressione non è partita da sé (non sia mai una verità così scomoda), ma sempre
dal nemico, come un'endemica malattia infantile che colpiva da ragazzini ("è
stato lui"), ma che ora uccide davvero.
Un Dio degli eserciti abbiamo eretto, più Moloc che
divinitas, nel quale l'uomo ancora non riesce a scoprire il giorno
in cui l'agnello pascolerà con il leone.
A poco importa se Buddha, Socrate, Cristo, il dolce Francesco che parlò con il "feroce"
Saladino in piena crociata e ne uscì indenne, e poi Gandhi, Martin Luther King,
Tolstoi, Madre Teresa, schiere di martiri a testa alta e mani nude hanno
testimoniato e continuano a testimoniare una via diversa, che si nutre di
rispetto per l'uomo e porta al rispetto per l'uomo. L'uomo
attardato nel suo oscuramento egoico non ha ancora orecchie per sentire. Sente
solo la minaccia che gli viene portata, mai quella che egli porta
all'altro.
Eppure la ricerca della verità resta l'unica "Utopia"
sopravvissuta fra tutte quelle che proclamavano di cambiare il mondo. Essa non
ha mai giustificato menzogna e violenza in nome di un'ipotetica e futura era
della pace sempre di là dal venire. Così ora non ha morti sulla coscienza da
farsi perdonare, non è costretta a rimanere lì a meditare a capo chino sulla
profonda connessione tra fini e mezzi. Imparare a vivere e a morire per la
soluzione dei problemi, ma non ad uccidere o distruggere l'altro, tale è lo
scandalo che propone. Certo questa Utopia non ha cambiato il mondo, ma tra una
deviazione violenta e l'altra, lo continua a sorreggere.
Non ci sono altri antidoti a tutte le filosofie della
potenza sulle quali si reggono la nostra ed altre culture, che questa filosofia
dell'efficacia che si fonda su basi, non tanto etiche, quanto ontologiche ed
esperienziali. Occorre avere il coraggio di dire che ciò che è giusto e proviene
dall'essere, funziona anche. Non c'è migliore realismo di
questo.
L'atteggiamento predatorio e difensivo allo stesso tempo
che domina l'animo umano è un realismo infantile che non può raggiungere nessuno
dei suoi obiettivi, salvo effimere vittorie, ma solo dopo aver ucciso Ahmed e
Shimon.
Poesia civile, dirà qualcuno storcendo il naso. Come se
occuparsi del pane e dei fagioli di Nerudiana memoria, fosse qualcosa di meno
dell'alta poesia. Quella che non ha tesi e viaggia aerea per universali, ma che
troppo spesso s'allontana da noi per perdersi in alt®i deserti ed (in)volute di
fumo. Poesia dico io. Comunque poesia, quando il verso sorregge l'ispirazione e
le immagini vanno nitide a
segno:
Lo riconosci, l'odore della mia
terra
assolata. Sa di datteri e
d'aloe.
Sa di
caprigno.
Da altura ad altura un solo
orgoglio.
E la poesia accompagna ormai il grande fiume della
storia umana da millenni e sotto tutte le latitudini. Si è conquistata sul campo
dei valori il diritto di extraterritorialità come un'ambasciata in terra
straniera o un luogo sacro tra i tumulti. Per questo possiamo assistere qui ad
una poesia scritta da un ufficiale dell'esercito, commentata da un obiettore di
coscienza, ed i cui protagonisti sono "Ahmed e Shimon poeti",
palestinese il primo, israeliano il secondo, le cui voci s'intrecciano fino a
confondersi in un'unica dolente umanità. Non si cercano e non si rintracciano
facili risposte in questa breve silloge a due voci; ma le istanze drammatiche
per le quali la poesia si fa così intensa espressione danno vita ad un viaggio,
compostamente sofferto, che interroga ognuno di noi, ed ognuno di noi trova
sulla via, incerti nelle nostre certezze, al passaggio del dolore e della
Storia.
6/11/2001
Claudio Bedussi